domenica 10 ottobre 2010

Dieci anni di guerra ed ancora caduti in Afghanistan

9 ottobre 2010, altri quattro militari italiani uccisi in Afghanistan per un attacco combinato dei Talebani. Ormai non si può più parlare di “esplosione” di uno IED posizionato nel terreno con uno scopo terroristico finalizzato a se stesso, ma di una vera e propria azione tattica coordinata in cui l’esplosione dell’Ordigno rappresenta uno degli elementi dell’azione, ma non il solo. Eventi che per ottenere successo devono fare riferimento ad un affidabile controllo del territorio dei Talebani, che nella realtà afgana può essere garantito solo da un’affidabile connivenza con gli abitanti del posto. Le modalità dell’attacco di ieri confermano queste ipotesi. Il tutto è avvenuto dopo poche ore dopo dal primo passaggio dell’autocolonna logistica diretta a nord. Non sufficienti ad organizzare per il giorno successivo un agguato del genere se gli insorti non hanno potuto fare riferimento ad una logistica ed a un supporto locale. Lo IED è saltato al passaggio del mezzo militare inserito in una colonna di altri 70 autocarri. Sicuramente è stato attivato a “ragion veduta” e non per il casuale impatto su un accenditore a pressione, magari ricavato da una mina anti carro posizionata in precedenza e collegata alla carica principale qualche giorno prima, con il rischio che esplodesse al passaggio di un bus locale adibito al trasporto di civili. Veicolo che, a pieno carico, esercita una pressione sul suolo sicuramente superiore a quella di un Lince seppure in assetto operativo. Peraltro, i soldati sono caduti nell’imboscata, mentre tornavano da una missione nella valle del Gulistan, nella provincia sud-occidentale di Farah, dopo essere stati “messi alla prova” il giorno prima da forze di insorti. Quanto avvenuto segue e si sovrappone ad un’altra azione quasi contemporanea, avvenuta nelle Aree Tribali pakistane contro una colonna logistica della NATO, sincronismo che sicuramente non fornisce spunti rassicuranti sulla stabilizzazione definitiva dell’Afghansitan, anche rallentata dalla preoccupazione di una componente dell’Intelligence del Pakistan (ISI) che teme un avvicinamento di Kabul all’India con un conseguente peggioramento della compromessa situazione nel Kashmir. Motivi molto simili a quelli che negli anni ‘90 spinsero l’ISI ad aiutare i Talebani nella loro ascesa iniziale al potere. E’ anche certo che Islamabad non può improvvisamente cancellare la realtà delle Aree Tribali e dei Signori della Guerra che le gestiscono e non può abbandonare i suoi alleati storici, tra cui i Talebani pakistani e la rete di Haqqani. "I Haqqani rappresentano un elemento importante del pashtun", ha detto Shuja Nawaz, direttore del Centro Sud Asia presso il Consiglio Atlantico. "Tribù che vivono a cavallo della frontiera, la cui presenza rinforza il potere del governo pakistano diminuendo la probabilità che gli indiani possano radicarsi a Kabul dopo aver già consolidato il proprio rapporto con l’Alleanza del Nord, stabile ormai dal 2001”. E’ quasi certo che Sirajuddin Haqqani gestisce gran parte della guerriglia attiva in tutto l'Afghanistan orientale. Insurrezione, autobombe, sequestri ed uccisioni di cooperanti occidentali o personale locale a loro vicino, compresi gli attacchi spettacolari ad installazioni militari americane. Sirajuddin ha probabilmente stretto alleanze con Al Qaeda e con i leader del ramo dei talebani afgani che fanno riferimento al mullah Muhammad Omar. La risposta a queste domande potrebbe accelerare il processo di pace e di riconciliazione dell’Afghanistan di oggi. Qualcosa si sta muovendo nella giusta direzione, ma il cammino è ancora lungo ed è prematuro dichiarare che gli afgani potranno gestire da soli i loro problemi a partire dalla fine del 2011. Poco si ottiene nel breve tempo solo attraverso l’incremento della popolazione scolastica afgana di cui il 35 per cento bambine e l’inserimento di donne nell'Assemblea Nazionale. La situazione è destinata, a rimanere un vacillante “castello di carte” se l’emancipazione non raggiungerà le campagne ancora feudi dei Signori della Guerra e dei commercianti di droga, convincendo i contadini che forse coltivare ortaggi è più conveniente che piantare papavero da oppio. Un target che può essere raggiunto solo attraverso fatti concreti che convincano la gente ad abbandonare gli insorti talebani per favorire la crescita globale del Paese e non limitarsi solo a garantire flussi ininterrotti di danaro, peraltro gestiti per lo più da organizzazioni internazionali destinate ad essere fagocitate da chi detiene il potere tribale. E’, piuttosto, auspicabile assicurare alla popolazione agricola quanto necessario per uscire dalle condizioni medioevali in cui ancora vive, assicurando loro vie di comunicazione per favorire un continuo interscambio culturale e conoscitivo che prevarichi le realtà dei clan, portando nelle zone rurali energia elettrica e quanto altro indispensabile per non circoscrivere la proiezione dell’Afghanistan verso l’era moderna limitatamente a Kabul, Herat e Kandhar.
Il generale David Petraeus, dopo l’attentato al convoglio italiano, ha elogiato “il coraggio e l’altruismo” dimostrato dai soldati italiani essenziale per assicurare successo all’impegno internazionale per sconfiggere una rivolta che vuole privare il popolo afgano della sicurezza e della stabilità, facendo diventare questo paese ancora una volta un santuario per i terroristi”. Un successo che non può essere disatteso se non si vuole rischiare di compromettere il sacrificio degli italiani e di tanti altri soldati del Contingente NATO caduti negli ultimi dieci anni, con un danno irreversibile per la sicurezza internazionale.
10 ottobre 2010


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